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PIERLUIGI FRESIA

Lunedì 28 maggio 2012 - Rat Cafè - Torino
Incontro Pierluigi Fresia al Rat Cafè di Torino, un lunedì pomeriggio di maggio.
Abito sportivo, Converse e casco della moto in mano.

Posso chiamarti “artista”, altrimenti come ti posso chiamare?
Artista, mi puoi chiamare così.

C’è stato un momento particolare in cui hai capito che potevi essere chiamato così?
No, momenti particolari non ce ne sono stati. Credo che, col passare del tempo, mi sia reso conto che avevo un modo diverso di comunicare.
C’è qualche artista in particolare che ti ha incuriosito e a cui ti sei ispirato?
Sono sempre stato curioso, sono sempre andato a cercare spunti e temi di confronto. Ovviamente vivo in una società e ho dovuto confrontarmi con i colleghi.

Che cosa differenzia un’artista dalle altre professioni?
Premetto che tutte le professioni hanno lo stesso valore. Lo dico davvero.
Per prima cosa un’artista deve essere umile, di questo sono molto convinto.
Sicuramente l’artista ha un approccio alle cose diverso da quello, per esempio, di un ingegnere.
Per essere più chiari credo che l’artista, o per lo meno io, abbia sostanzialmente dei problemi a comunicare. E' costretto a fare giri più lunghi per trasmettere il suo pensiero.
E' costretto a usare un linguaggio a sè stante, ogni volta diverso e in questo risiede la sua arte.
Dietro l’opera di un’artista, naturalmente, c’è tutta la sua storia, tutte le sue emozioni.

Quindi il pubblico diventa destinatario e custode delle tue opere?
E' fondamentale che qualcuno trasformi qualcosa di mio in qualcosa di suo.
E’ così che deve essere per me.
I miei testi  sono storie irrisolte. Sono ancora in divenire e permettono, chiedono, diverse  interpretazioni al pubblico.
Chi osserva è "padrone" dell’arte, e ne  possiede la chiave ermeneutica.

© Pierluigi Fresia

© Pierluigi Fresia






© Pierluigi Fresia

© Pierluigi Fresia









Come avviene il processo creativo di una tua opera? C’è un momento in cui può definirsi conclusa?
Le mie opere hanno sicuramente una componente estetica che reputo fondamentale.
La fotografia, l’immagine di sfondo, è l’importante scenografia su cui le parole troveranno spazio.
Non ho fretta di fotografare, nè tantomeno esco di casa di proposito per fare delle fotografie. Sono sicuro che sarebbe un’uscita a vuoto!
Ti faccio un esempio.
L’altro giorno sono passato in moto vicino ad un campo di grano piegato dal vento. Ho capito che quel soggetto per me valeva qualcosa, mi stava trasmettendo delle emozioni. Sono tornato a casa e  la sera sono ritornato a fotografare quel campo.
Ora resterà lì per un po’ di tempo nel mio hard disk e prima o poi tornerà utile.
Curo molto ogni particolare, la parola deve “stare bene” anche come forma nello spazio. Cerco di “appiattire” ogni frase, cerco di non enfatizzare mai nessuna parola e quando la enfatizzo è per spiazzare l’osservatore e dargli meno indicazioni possibili. In questo modo lo lascio libero di assecondare ogni sua interpretazione.
E’ come se dicessi a chi osserva “Vai avanti tu, di più non so!”.
Questo è il concetto di “umiltà” dell’artista di cui parlavo prima.

Come mai hai scelto la fotografia come veicolo del tuo comunicare?
Fin da bambino amavo la pittura a olio. Dipingevo papaveri che copiavo dal libro di disegno di mio fratello.
All’età di 9 anni andavo a lezione da una pittrice di nome Gioconda (mai nome più appropriato per una pittrice!). Mi insegnava a dipingere a olio.
Ero spesso nei campi con il cavalletto e i miei colori. Passavo interi pomeriggi da solo a dipingere e il mio primo soggetto è stata una vecchina sulla strada. Andavo nei campi ma non dipingevo quello che vedevo, i miei soggetti erano frutto della mia fantasia.
Con il passare del tempo l’insegnante di pittura si sbilanciava a darmi indicazioni non solo tecniche ma anche artistiche e personali su come dipingere e questa sua influenza disturbava un po’quella che era la mia vena artistica e decisi di smettere.
Verso i 18-20 anni ho lasciato che le mie energie venissero impiegate in più discipline e mi sono cimentato con la scrittura, con la musica (suonavo la batteria in un gruppo, la suono tutt’ora).
Ad un certo punto ho deciso di concentrarmi sulla fotografia. L’importante è prendere una decisione e crederci.
Ho incominciato a girare per musei, la formazione è fondamentale.
Mi ero messo in testa di voler capire come lavoravano gli altri artisti, così gli scrivevo delle lettere per sapere come era il loro modo di lavorare, perché avevo paura di sbagliare metodo. Poi, ho scoperto che un vero e proprio metodo non c’è.
C’è il tuo metodo e basta.
Ho lavorato e lavoro molto, l’arte  è un impegno che richiede molte energie e pazienza.
Credo che si debba avere l’umiltà di capire da soli, col tempo, cosa sappiamo realmente fare bene e farlo  o almeno provarci una volta nella vita!

© Pierluigi Fresia
© Pierluigi Fresia











 


© Pierluigi Fresia
© Pierluigi Fresia

                                             









Cosa significa per te “fotografare”?
Ho sempre inteso la fotografia come un concetto legato al tempo.
Dare importanza all’attimo che si coglie e portarlo con sé.
Sembra assurdo ma la cosa terribile nel rivedere una fotografia è il rendersi conto che quell’attimo è perduto, perché fisicamente non c’è più. E poi quell’attimo io non l’ho mai vissuto, perché lo stavo fotografando.

Ci sono persone che ti hanno aiutato e sostenuto in modo particolare?
Nella mia vita sono stato fortunato e ho incontrato molte persone che mi hanno aiutato.
Liliana Dematteis ha creduto molto in me, sin dall’inizio, ed è una persona alla quale sono molto riconoscente.
E poi ci sono i miei genitori. Hanno sempre visto il mio interesse per la pittura e la fotografia  in maniera positiva e non hanno mai ostacolato ma anzi hanno incoraggiato lo sviluppo di questa passione.
Ricordo ancora quando facevo vedere a mio padre una mia opera. Lui la osservava e dopo un momento di silenzio diceva sospirando: ”Mah…”
Ricordo che in terza elementare mi aveva chiesto cosa volessi per la promozione. Io gli risposi che volevo un cavalletto e la sua risposta fu di nuovo “Mah….”

Nel 1920 Hemingway vinse una scommessa scrivendo una storia in 6 parole. Se dovessi provarci tu, cosa diresti?
Col tempo forse mi abituerò a vivere.
Sono sette, vanno bene lo stesso?



Intervista di Alessandro Carlevatti
Ringrazio Pierluigi Fresia per la disponibilità e per il tempo dedicato
Info: http://www.pierluigifresia.it/

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